Alex Pedrazzini, scomparso lo scorso mese di ottobre a 70 anni, fu dapprima Consigliere di Stato dal 1991 al 1999 e in seguito Granconsigliere dal 2003 al 2019 nelle file del PPD. Lo ricordiamo con affetto e gratitudine, riproponendo il suo articolo pubblicato sui Quaderni del 2001, esattamente 20 anni fa…, attraverso il quale ricordava la sua infanzia trascorsa a Vacallo con una particolare evocazione del Natale di una volta.

Anch’io sono stato bambino, me lo ricordo benissimo…

Cari Vacallesi, sì, anch’io lo sono stato. Lo sono stato a Vacallo o, meglio, a San Simone. E l’invito rivoltomi a scrivere due righe per Natale è per me l’occasione d’un tuffo nel passato, un passato che ricordo lieto, abbellito forse (o anzi senza forse) da quelle lenti rosa che ognuno di noi calza quando si volge a guardare la sua infanzia.

Mi ripassano davanti agli occhi fotogrammi d’un film solo in parte sbiadito, a volte invece a tinte forti, le tinte deformanti dei sentimenti. Sono gli occhi del cuore contro i quali la ragione non ha scampo. Ricordi dilatati, abbelliti, ricordi cari e dolci. Anche i Consiglieri di Stato sono stati bambini e serbano nell’animo profumi, suoni, gusti ed immagini registrati quando portavano i calzoni corti. I profumi dell’erba tagliata di fresco, anzi “ranzata”, non lo sgradevole rumore d’un motore ma l’armonioso arco della falce; il canto dei grilli, che facevamo uscire dalla loro buca inserendovi una pagliuzza.

Non sapevo all’epoca perchè si affacciassero: per curiosità, invitati dall’esca o irritati dall’intrusione? Oggi, che sono grande, conosco la risposta: uscivano perchè i grilli sono buoni, uscivano per far piacere a noi bambini; il canto del Giovanni alla “Sirenetta”, Messico, Messiiiicooo: ed era tutti noi.

E nelle orecchie anche le voci delle mamme: “Loris! Mimmoooo! Paolo! a cà che l’è ura!”, voci al tempo stesso d’amore e d’insensibilità, insensibili come lo è oggi il trillare del natel quando stai facendo altro, insensibili perchè fischiavano anzitempo la fine di quell’epica partita di calcio, tra zolle e sgambetti, dove ognuno si sentiva Sivori, tranne chi giocava in porta che era Cudicini della Roma, il ragno; poi il gusto del panciücc, di gran lunga migliore delle merendine preconfezionate, specialmente se non lavato; e le lucciole, col loro fascino e che un po’ ci impaurivano tanto che le rincorrevamo facendo finta di prenderle ma evitando di toccarle “perchè scottavano”; lucciole che il WWF non ha protetto e che credo si siano estinte quando ho lasciato Vacallo. A meno che ci siano ancora e che sia io che non le sappia più vedere perchè ho deciso di non avere più il tempo per andarle ad ammirare, convinto d’avere cose più importanti da fare. Convinto a torto d’avere cose più importanti da fare. Ricordo il vocio di noi bambini quando giocavamo, uscendo da scuola, a “dassala”. No, non giocavamo: ci battevamo come Talibani coi Musshajdin per evitare che la nostra frazione ricevesse l’onta di dover passare la notte con la Peppa tencia.

“Ga l’ha Pizzamei”, e via i Cristinelli ad inseguirci; “ga l’ha Vacall”: ed ecco Giambattista Cinesi sulle nostre tracce per restituirci la manata! e poi Fontanella col Marco, Roggiana col Tampa Cereghett e noi di San Simone, di sicuro i più bravi, per definizione i più bravi, coi Selvini, il Nello e naturalmente l’Alex, che ancora si chiamava Ales. Altro che fusione dei Comuni: Vacallo in quei frangenti sembrava la Berlino prima della caduta del muro, con divisioni trasparenti per gli altri ma che per noi ritagliavano il villaggio in “settori di competenza territoriale”, se vogliamo usare un linguaggio da adulti. Una cosa ci affratellava: l’alzata colossale (ed a volte “la manata” su quella parte del corpo dove non batte il sole…) che ognuno riceveva rientrando a casa inscì tardi, “ta vedat mia che iè i ciiinq!”.

Già, le mamme non erano molto sensibili alle problematiche legate al “dasala”: ah, queste donne di strategia guerriera proprio capiscono poco! Le mamme, la mia (evidentemente la piu bella), e quelle degli altri. Mi riappaiono i volti di quegli adulti che per me hanno fatto epoca: la maestra Rosina Lupi, che noi bambini andavamo a prendere a casa la mattina, perchè abitava a due passi dalla scuola: una delle poche donne di cui ho potuto parlare a mia moglie senza temere di far nascere gelosie, io avevo sette anni e lei, credo, era vecchissima, aveva grosso modo l’età che io ho oggi!

La Signorina Lironi, che veniva da Caneggio, e che mi fece piangere quella sera in cui mi ordinò di ridisegnare la piantina della scuola perchè mancava un gradino: versai lacrime amare perché occorreva rifare tutto e era tardi (immagino le quattro del pomeriggio) e sarei arrivato a casa che faceva già buio (storie santissime che i bambini si raccontano in cuor loro inventando drammi improbabili per farsi paura e commiserarsi); e ancora i maestri uomini (all’epoca rari alle elementari), Scolari, che brandiva una lunga asta di legno con la quale colpiva le zucche degli allievi distratti, o il maestro Lucchini che ammutoliva i troppo loquaci lanciando il gesso con temibile precisione! Quanti ricordi, compagni e compagne: le ragazzine diverse da noi maschietti non tanto perchè il Signore ha dato a noi alcuni centimetri in più (mi sarei accorto soprattutto piu tardi della dolce differenza), ma perchè loro andavano a lavoro femminile dalla Maestra Pozzi e noi no, Maestra Pozzi che ricordo immensa ma che pesava probabilmente meno di quanto non pesi io oggi.

Poi ricordo le stagioni, o meglio i maggiolini, la salsedine sulle labbra, l’uva e la neve. L’inverno come ora. I pupazzi che faceva mio papà, i più belli del mondo, con la carota, i due bottoni, il cappello. E poi metteva la pipa, perchè la bocca non la sapeva fare. Solo il mio papà, faceva pupazzi così belli..quando c’era. E la stessa cosa la potrebbero dire i miei figli: la storia si ripete: nemmeno io so fare la bocca dei pupazzi e non solo quello. Ed il pomeriggio, le slittate sulla brüga dietro ai Bellini, un pendio infinito, ben piu lungo della pista di bob di San Moritz. Non ci credete? ma come misurate voi la lunghezza d’un pendio sul quale si slitta? in metri? ma non fatemi ridere! si misura nella fatica che un bambino fa per trainare la sua slitta dal fondo alla cima. Ed io avevo le gambe corte e la slitta era pesante, pesante quanto me: è un po’ come se oggi mi trascinassi appresso un peso di cento chili! Sì, sì, la discesa dietro ai Bellini era piu lunga delle piste di bob, me lo ricordo benissimo. Ed ero -vi svelo un segreto- un po’ geloso del Giovanni e dei suoi fratelli che avevano la casa che sovrastava il pendio, un po’ come si poteva essere gelosi dei Fossati che avevano le finestre a Chiasso che davano sul Comacini e vedevano le partite di calcio gratis o come si può essere gelosi di chi ha la casa a Montecarlo e vede il Gran premio dal terrazzo. Poi mi ricordo i Natali. Ci si andava a confessare (il cuore batteva forte). Ci si confessava lasciando per ultimo il peccato più grosso, cercando di guadagnare tempo con peccatuncoli, … (uno schema difensivo che avrei riutilizzato più tardi quando come politico tentavo di difendere l’indifendibile davanti al Gran Consiglio o a giornalisti carognosi che, per fortuna, non hanno il Creatore come alleato), ma ul Sciur Prevost non era nato ieri: “E dopo…” diceva – “e ancora…”, del genere: “sputa il rospo! guarda che io ed il buon Dio già sappiamo…”

Poi la penitenza: tre Ave Maria, un Angelo custode (preferibile perchè piu breve) e si usciva leggeri, ripetendosi a bassa voce: “stavolta non ci ricasco più, è finita coi peccati”, impegno formale che svaniva ben presto quando nasceva il triangolo infernale: mano destra, sasso, lampadina della strada: e di nuovo c’era un peccato da confessare. Il periodo natalizio era anche contraddistinto da due visite: quella di San Nicolao e quella di Gesu bambino. Il primo veniva a scuola, parlava con un vocione, si mostrava vecchio e stanco ma soprattutto “profumava di renna”.

Avrei appreso piu tardi che quel profumo di renna era in realtà puzzo di birra ma era buono lo stesso.

Il secondo, beh il secondo è un’altra storia, una fiaba vecchia come il mondo, o quasi. Già perchè quelli erano Natali veri, ancora credevamo a Gesù bambino, con la magia dei doni, le aule addobbate a festa, i lavoretti per fare la sorpresa a mamma e papà, l’Elio piccolo che cantando non si accorse che la candela sul davanzale aveva dato fuoco ai suoi capelli e noi non sapevamo se ridere o gridare aiuto. Tutti credevamo a Gesù bambino, anche quelli che a scuola facevano i gradassi perchè avevano un fratello grande che aveva detto loro che Gesù bambino “l’eva ul bursin dal pà”. Sono sicuro che il 24 dicembre, andando a letto, la sera, si auguravano in cuor loro che invece Gesù bambino ci fosse e che il fratello grande si fosse sbagliato. E noi, a casa, la mattina di Natale a piedi scalzi: “mamma, papà, è ora!” “Andate a letto, Piqua (mia sorellina) e Ales, è ancora presto!”. Ma come presto – ci dicevamo noi – dev’essere arrivato Gesù bambino e per loro è ancora presto? non li capisco sti adulti. Come faranno a dormire se c’è di là il miracolo?

Poi sentivo bisbigliare: “Ta l’u dii da met gio i pachitt ier sira!”: dieci minuti dopo non era già più presto. Ed a me però pareva che in quel breve lasso di tempo si sentisse un gran fruscio di carta, come se qualcuno stesse toccando dei regali… mah, sicuramente mi sbagliavo! mi sbagliavo perchè negli anni sessanta a Vacallo Gesù Bambino c’era davvero, me lo ricordo benissimo. Vi era in quei tempi una complicità tra terra e cielo che non avrei mai piu rivissuto.

Una complicità ammantata di bianco e che si manifestava in tutto il suo splendore alla Messa di mezzanotte, alla quale partecipavano tutti tranne la Rüttli, la mia prima cotta, con le treccine e gli occhi “quasi a mandorla” perchè lei era protestante. E mi dispiaceva un sacco. Ma c’erano la Mimi, la Cita e le altre, tutte le altre. C’erano le più tenere tra tutte: Marisa, Annalisa, che non sono più perchè il destino per loro aveva tracciato altre traettorie, traettorie più brevi.

Le ricordo con amore: i loro sorrisi, i loro capelli, i loro sguardi.

Vite spezzate e che forse per questo ti restano nella mente e nel cuore incise per sempre.

Poi a Messa c’erano gli altri, i grandi: personaggi-mito per i quali non distinguevamo il nome dalla funzione: Ulmacelarmascetti; Ulsegretaririzza; la Basergadalacampanela; la Mariuccia dalaposta. Non donne o uomini, ma leggende.

La magia voleva che uscendo dalla chiesa cadessero fiocchi di neve, grossi, immensi, non quelli rotondi, quelli grandi come isole. E capitava sempre.

E non capitava per caso: era la Messa di mezzanotte, o meglio il profumo d’incenso che saliva al cielo ed il nostro coro “Stille Nacht” che davano il via agli angeli ed alle nuvole.

Sono convinto che fosse all’epoca così. E non ditemi di no. Così era o per lo meno così lo voglio ricordare.

Cari vacallesi, eccomi al termine. Qualcuno penserà: “ma non è un discorso politico quello che ci hai fatto!” ma chi lo dice? l’amore per il proprio paese, per le proprie radici non è, nell’era della globalizzazione, la miglior base sulla quale costruire per i nostri figli? e questa non è politica?

E anche se non lo fosse, con questo pezzo mi sono fatto un regalo, un regalo di Natale. Ho rivissuto sprazzi d’infanzia. In un momento dove tutto ci porterebbe a scrivere di tragedie mi sono regalato una favola. Spero d’aver donato anche a voi uno spicchio di serenità. Ne abbiamo tanto bisogno. Ed ora un consiglio: mi raccomando, il 24 dicembre andate alla Messa di mezzanotte. Vedrete che i vostri canti ed il profumo d’incenso faranno cadere dal cielo fiocchi di neve grandi come isole. Ed il mattino seguente, sotto l’albero, troverete i doni di Gesu bambino. Ne sono certo. Li meritate. Buone feste a tutti voi.

Buon Natale Vacallo.

Con affetto

Alex